All’indomani delle nostre manifestazioni è giusto analizzare le giornata di sciopero e di manifestazioni  nella pubblica amministrazione. Molti colleghi e associati, infatti, nei giorni scorsi, ci hanno chiesto se aveva ancora senso fare sciopero. La risposta appare semplice e per certi versi scontata per chi come me è cresciuto credendo nei valori della democrazia e con l’idea di vivere in un paese libero e per quanto possibile giusto: la risposta è si. Indipendentemente dalla partecipazione che in ogni caso giudichiamo buona. Con un alto numero di manifestazioni che si sono tenute in tutte le regioni.

Per noi vale sempre la pena ed ha sempre senso investire nei propri ideali ed è maledettamente attuale dover  rivendicare i propri diritti con le armi della democrazia che per i lavoratori significa scioperare.  Ma non ci illudiamo che sia così per tutti. E rischieremmo di essere scambiati per dei superficiali, però, se ci limitassimo a questa risposta (di per sé  invece bastevole)  e non articolassimo in modo più ampio le ragioni dello  sciopero e della relativa mobilitazione.

Analizziamo quindi di seguito il contesto sociopolitico e le altre ragioni che ci portano alla medesima conclusione.

Dal 2008  stiamo vivendo un periodo di profonda crisi economica; una crisi che si è innestata ed ha influito congiunturalmente  sul nostro paese impegnato nella realizzazione di una riforma del paese inquadrata nell’ambito della strategia di Lisbona.  Una crisi strutturale che è stata affrontata in modo inadeguato dalle istituzioni e, riforme dello stato,  che sostanzialmente sono state  fatte pagare  solo ai lavoratori p.a.

È l’autunno del 2008 quando, dopo gli accordi di Lisbona, il ministro Brunetta inizia la sua campagna per la riforma della P.A. presentando il cosiddetto “piano industriale” ed additando il lavoratori del settore come fannulloni; di li a poco il parlamento gli vota la delega (contenuta nella legge 15 del 2009). Nell’aprile del 2009 il ministro sottoscrive con le confederazioni sindacali un accordo per l’applicazione della riforma degli assetti contrattuali nel p.i. che non si concretizzerà più a seguito dell’avvento del collegato lavoro del 2010 che blocca i contratti e dalla lettera (strettamente riservata) inviata dalla Bce al Governo italiano datata 5 agosto 2011 e firmata dal presidente Jean Claude Trichet e dal futuro numero uno dell’Eurotower, Mario Draghi. E di lì ad un anno sono approvate dal parlamento, ed entrano in vigore, le nuove norme in materia di revisione della spesa pubblica (spending review) che prevedono la pesante riorganizzazione del sistema paese, della sua pubblica amministrazione e della sua sanità, con il taglio dei piccoli ospedali. Per non parlare della scandalosa riforma Fornero (Governo Monti) che in nome dell’equilibrio finanziario ha tradito milioni di lavoratori privandoli di ogni diritto sin lì acquisito e ha determinato migliaia di “esodati”, un brutto termine per indicare persone private di ogni diritto.

Ma era il 15 novembre 2012  quando, nell’assordante silenzio di governo e Regioni, scadeva il termine per sottoscrivere il Patto per la Salute 2013-2015, determinando – senza alcuna mediazione delle Regioni – l’applicazione delle misure di contenimento della spesa pubblica che hanno sottratto alla sanità oltre 30 miliardi di euro.

Ricorderanno i nostri associati che già nel 2010, FSI-USAE, per modificare il provvedimento del governo all’esame al Parlamento ha chiamato i lavoratori a dichiarare in modo concreto il  dissenso ad una manovra che penalizzava solo i pubblici dipendenti con una petizione alle camere e ha proclamato uno sciopero nazionale per il 27 Settembre 2010 .

In quella occasione, nell’indire la mobilitazione la nostra Federazione  ha coniato il motto: “I DIPENDENTI PUBBLICI SONO UNA RISORSA E NON UN COSTO”  ed ha detto “NO ! AL BLOCCO DEI CONTRATTI” contenuto nella manovra del governo. Nei manifesti e nel documento alle camere  indicavamo come  strada   alternativa per uscire dalla crisi “IL TAGLIO DELLE SPESE PER LA POLITICA”  fornendo altresì una serie di opzioni per i relativi provvedimenti: la riduzione di 1/3 del numero dei parlamentari nazionali e dei consiglieri regionali e comunali; l’abolizione della possibilità di istituzione dei gruppi parlamentari e consiliari in deroga; l’abolizione dei consigli provinciali per sostituirli con un organismo assembleare composto dai sindaci dei comuni della medesima provincia; l’abolizione delle Prefetture e la riforma delle forze dell’ordine con la separazione delle funzioni e delle competenze; l’abolizione delle consulenze e delle esternalizzazioni; l’introduzione della responsabilità patrimoniale per gli amministratori di enti, consorzi, aziende e società pubbliche; l’introdurre dell’obbligo di utilizzo dell’open source nella pubblica amministrazione.

Sostenevamo già allora che per i dipendenti e pensionati era necessario intervenire sulla fiscalità, spostando la pressione dal lavoro e dalle pensioni alle rendite finanziarie e alla tassazione indiretta; che l’irpef dei lavoratori dipendenti doveva essere ridotta ai valori di tassazione delle rendite finanziarie e cioè al 12,5 %; chiedevamo la totale deducibilità fiscale degli affitti, dei mutui prima casa, delle bollette relative alle utenze di acqua luce e gas e telefono; e la totale deducibilità fiscale di pane, latte, farina, pasta, riso e degli altri generi di prima necessità; nonché la totale deducibilità fiscale di libri, oneri scolastici, supporti informatici e trasporti pubblici per i figli in età ricompresa nella scuola dell’obbligo.

Uno sciopero e delle manifestazioni con cui  ribadivamo la necessità di trattare con dignità i lavoratori delle pubbliche amministrazioni e rivendicavamo una  giustizia sociale per gli stessi lavoratori denigrati da una classe politica sprecona che scaricava tutte le responsabilità sulla quella burocrazia che dalla medesima classe politica dipendeva.

E, ancora, era il settembre del 2012 quando questa organizzazione  si opponeva ad  una oltraggiosa SPENDING REVIEW che prevedeva l’esubero di 24.000 lavoratori P.A. , la chiusura di 1.600 uffici dello Stato, il taglio di 32.000 posti letto e di 120  piccoli ospedali , ma anche e soprattutto  un altro blocco, di ulteriori 4 anni, dei contratti per i lavoratori delle pubbliche amministrazioni.  Anche in questo caso abbiamo tenuto alta la bandiera della dignità e del diritto alla giusta retribuzione dei lavoratori e ci siamo opposti a dei provvedimenti che, ora sappiamo con certezza, non hanno prodotto alcun altro risparmio effettivo se non quello derivante dal blocco delle retribuzioni dei lavoratori del p.i.

Era il febbraio del  2106  quando la FSI- USAE ha presentato alla Camera dei Deputati  un  “documento politico programmatico per una sanità senza padrini e senza padroni” in cui esprimeva senza mezzi termini un significativo auspicio : “noi desideriamo una sanità differente, che dia il giusto peso agli operatori e che sia percepita dai cittadini come un valore aggiunto”.  Un documento in cui si rimarcava  in tutte le sedi la necessità di una organizzazione sanitaria che metta al centro il cittadino/utente in una visione moderna e sosteneva che tale obiettivo non si può conseguire facendo scempio delle risorse umane e professionali che costituiscono un patrimonio di competenze ed eccellenze che il mondo intero ci invidia. Che continuando con la logica dei tagli, il nostro SSN sarebbe risultato sempre meno attrattivo nei confronti del cittadino che giocoforza avrebbe rivolto al privato le proprie istanze di salute. E che per ridare forza e slancio alla sanità pubblica, l’unica in grado di garantire lo spirito universalistico previsto dall’art. 32 della Costituzione,  FSI-USAE rivendicava con forza: Una sanità universale e alla portata di tutti i cittadini senza distinzioni di classe sociale; Un sistema sanitario al contempo, nazionale, regionale e locale: nazionale nelle garanzie, regionale nelle programmazione, locale nell’erogazione dei servizi; L’erogazione delle prestazioni secondo i LEA approvati a livello nazionale e monitorati a livello regionale, al fine di consentire a tutti i cittadini lo stesso tipo di prestazioni; Azzeramento delle consulenze e delle esternalizzazioni; Adeguamento degli stipendi al costo della vita con standard europei; Infermieri di Famiglia in regime di convenzione per la garanzia della cura dei cittadini nel proprio ambito familiare; Riconoscimento del ruolo sanitario e la possibilità di sviluppo di carriera per gli OSS che garantisca all’utenza un adeguato trattamento negli ospedali e sul territorio; Inquadramento contrattuale nell’area della dirigenza per le professioni sanitarie di cui alla legge 42/1999 e 251/2000; Revisione dei parametri di riconoscimento di lavoro usurante per i turnisti del SSN; Abolizione, per il personale del SSN, dell’articolo 53, comma 1, del Dlgs 165/2001.

La scure del Governo, però, nel frattempo non è stata ferma, abbattendosi con alcuni altri provvedimenti di certo non secondari per i lavoratori: dal Job Acts, alla Buona Scuola, dai provvedimenti per la riorganizzazione della Pubblica Amministrazione, alla riforma fiscale. In poche parole ci hanno propinato la medesima medicina imposta dalla Troika alla Grecia, che però l’Italia si è bevuta qualificandola come “il male minore”.

Gli ultimi contratti che sono stati sottoscritti per i dipendenti delle pubbliche amministrazioni,  però, riguardano il quadriennio 2006-2009 ; l’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 e la successiva l’intesa per  l’applicazione del medesimo ai comparti contrattuali del settore pubblico sottoscritta il 30 aprile 2009, prevedevano la riduzione del periodo di vigenza contrattuale ai tre anni e l’introduzione dell’indice IPCA quale strumento base di riferimento per la valutazione dell’indicizzazione degli aumenti contrattuali per i lavoratori delle pubbliche amministrazioni. Tutte questioni rese evanescenti visto che dal 2010 è in vigore il blocco delle retribuzioni stabilito con il decreto legge 78/2010, prorogato con il dl 98/2011, norme richiamate dalle manovre finanziarie successive sino alla sentenza della corte costituzionale n. 178 del 2015 che ha dichiarato la riaperture dei contratti a partire dal luglio 2015 e quindi nel pieno del triennio 2013-2015.

Ora nel medesimo periodo i contratti di lavoro del settore privato sono già stati rinnovati almeno due volte per i trienni 2010-2012 e 2013-2015 con degli aumenti che si aggirano rispettivamente sui 100 € prima e sui 130 € successivamente.

Mentre lo scorso 30 novembre, fra la Ministra Madia e Cgil-Cisl–Uil, è stato sottoscritto un accordo (siglato poi anche dalla Confsal) che tradisce gli impegni precedentemente assunti anche dagli stessi soggetti con i protocolli del 2009: non prevede alcun aumento per il periodo 2013-2015 e prevede degli aumenti medi pro-capite di 85 euro per il triennio 2016-2018. Accordo che FSI-USAE non ha condiviso e che non si sente di condividere in quanto i lavoratori della p.a. hanno il diritto ad una giusta retribuzione e alla possibilità di recuperare il potere di acquisto delle proprie buste paga.

FSI-USAE, esprimendo la ferma disapprovazione per la quantificazione economica prevista nell’accordo del 30 novembre 2016, fra la Ministra Madia e Cgil-Cisl–Uil, ha rivendicato, da subito, con questa tornata contrattuale, il recupero contrattuale del triennio 2013-2015 e il riallineamento degli andamenti retributivi e contrattuali dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni centrali e locali con quanto avvenuto per i lavoratori del lavoro privato chiedendo il finanziamento del contratto dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni centrali e locali, con le risorse necessarie a garantire aumenti adeguati che ha indicato in una cifra che, al netto degli 80 euro di decontribuzione, si può quantificare in 250 euro mensili medie pro capite. Rivendicazioni che vanno oltre la richiesta salariale: sono una richiesta di dignità, di libertà e di giustizia sociale.

Analizzato il contesto politico, ci sia consentita un’ultima annotazione.  Può capitare,  anche se in poche occasioni,  che una minoranza fortemente determinata riesca a far cambiare idea alle altre parti in causa. Può avvenire ed è già successo. È accaduto nel lontano 1998. In quell’occasione tutte le organizzazioni sindacali del comparto ad eccezione della nostra sottoscrissero una ipotesi di accordo  contrattuale.  La nostra organizzazione manifestò apertamente e determinatamente il proprio dissenso per tale ipotesi e quell’ipotesi di contratto non venne mai inviata alla registrazione della corte dei conti. E più tardi fu sottoscritta, da tutti, una nuova e diversa ipotesi contrattuale, che sfociò nel contratto del 7 aprile del 1999 (che è il contratto di tutti, sì, ma raccoglie le nostre istanze prima inascoltate). E sulla base di quelle rivendicazioni, nel biennio successivo, furono poi iniettate nel comparto nuove e fresche risorse contrattuali per 1.350 miliardi di lire.

Ora, per concludere, in quale altro modo avremmo dovuto sostenere le nostre richieste se non con le armi, democratiche, dello sciopero e delle manifestazioni, che sono lo strumento (tutelato costituzionalmente) a disposizione del sindacato?

Ogni persona libera e democratica deve fare la sua parte per rivendicare i propri diritti (e in qualche caso anche quelli altrui) sia quando il risultato appare alla portata di mano sia quando questo appare distante, quasi fosse una utopia.

Si; se abbiamo lottato per le nostre idee, per la giustizia sociale, lo sciopero ha avuto un senso. Perché chi rinuncia a lottare per le proprie idee e per la giustizia sociale  rinuncia ad un pezzo della propria anima. E se si rinuncia alla propria anima si perde molto di più che un piccolo pezzetto della propria vita e si rinuncia a molto di più che ad una giornata di busta paga. Senza trascurare il fatto che un domani a chi ci chiederà cosa abbiamo fatto per migliorare la qualità della vita dei nostri colleghi noi avremo una risposta precisa e chiara da fornire: noi il 12 maggio ci abbiamo messo la faccia e tu ?

Il 12 maggio è stato il giorno giusto per scioperare e per rivendicare con forza,  con le manifestazioni che si sono tenute da nord a sud e da est ad ovest in tutta la nostra Italia, il diritto dei lavoratori delle pubbliche amministrazioni alla dignità, alla qualità del lavoro, alla giusta retribuzione e da “civil servant” ad essere considerati una risorsa per il paese e non una zavorra.

 

Il Segretario Generale

F.to Adamo Bonazzi