“Se è vero che il mobbing non può realizzarsi attraverso una condotta istantanea, è anche vero che un periodo di sei mesi è più che sufficiente per integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo. Né ad escludere la responsabilità del datore, quando (come nella specie) il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, può bastare un mero – tardivo – “intervento pacificatore”, non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto “mobbizante””.

La Cassazione ha così ribaltato le precedenti sentenze che avevano rigettato le tesi della lavoratrice ricorrente. Nella sostanza la Cassazione ha ritenuto che per dare una valutazione complessiva ed unitaria della vicenda sia necessario che i singoli elementi siano oggetto di una valutazione non limitata al piano atomistico, bensì elevata al fatto nella sua articolata complessità e nella sua strutturale unitarietà.
Salienti alcuni passaggi della pronuncia che ripercorrono l’orientamento della giurisprudenza di legittimità e del giudice delle leggi in materia di mobbing .
“Il mobbing è costituito da una condotta protratta nel tempo e diretta a ledere il lavoratore. Caratterizzano questo comportamento la sua protrazione nel tempo attraverso una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, anche intrinsecamente legittimi: Corte cost. 19 dicembre 2003 n. 359; Cass. Sez. Un. 4 maggio 2004 n. 8438; Cass. 29 settembre 2005 n. 19053; dalla protrazione il suo carattere di illecito permanente: Cass. Sez. Un. 12 giugno 2006 n. 13537), la volontà che lo sorregge (diretta alla persecuzione ed all’emarginazione del dipendente), e la conseguente lesione, attuata sul piano professionale o sessuale o morale o psicologico o fisico.
Lo specifico intento che lo sorregge e la sua protrazione nel tempo lo distinguono da singoli atti illegittimi (quale la mera dequalificazione ex art. 2103 cod. civ.). Fondamento dell’illegittimità è (in tal senso, anche Cass. 6 marzo 2006 n. 4774) l’obbligo datorile, ex art. 2087 cod. civ., di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore.
Da ciò la responsabilità del datore anche ove (pur in assenza d’un suo specifico intento lesivo) il comportamento materiale sia posto in essere da altro dipendente. Anche se il diretto comportamento in esame è caratterizzato da uno specifico intento lesivo, la responsabilità del datore (ove il comportamento sia direttamente riferibile ad altri dipendenti aziendali) può discendere, attraverso l’art. 2049 cod. civ., da colpevole inerzia nella rimozione del fatto lesivo (in tale ipotesi esigendosi tuttavia intrinseca illiceità soggettiva ed oggettiva di tale diretto comportamento – Cass. 4 marzo 2005 n. 4742 – ed il rapporto di occasionalità necessaria fra l’attività lavorativa e danno subito: Cass. 6 marzo 2008 n. 6033).
Lo spazio del mobbing, presupponendo necessariamente (nella sua diretta od indiretta origine) la protrazione d’una volontà lesiva, è pertanto più ristretto di quello (nel quale tuttavia s’inquadra) delineato dall’art. 2087 cod. civ., comprensivo di ogni comportamento datorile, che può essere anche istantaneo, e fondato sulla colpa.
Avendo fondamento nell’art. 2087 cod. civ. l’astratta configurazione del mobbing costituisce la specificazione della clausola generale contenuta in questa disposizione.
Da ciò discende che
– come specificazione, il mobbing è parte integrante della disposizione di legge da cui trae origine, di questa in tal modo assumendo giuridica natura;
– per tale natura, la sua formulazione è funzione di legittimità funzione riservata al giudice di merito – ed esclusa dalla sede di legittimità è solo l’accertamento dell’esistenza – o dell’inesistenza – del fatto materiale da ricondurre poi al modulo normativo);
– funzione di legittimità è anche la sussunzione del fatto (come accertato) nel modulo normativo;
– nella relativa inosservanza, la specificazione della clausola generale è deducibile (attraverso l’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) in sede di legittimità.
Per la natura (anche legittima) dei singoli episodi e per la protrazione del comportamento nel tempo nonché per l’unitarietà dell’intento lesivo, è necessario che da un canto si dia rilievo ad ogni singolo elemento in cui il comportamento si manifesta (assumendo rilievo anche la soggettiva angolazione del comportamento, come costruito e destinato ad essere percepito dal lavoratore).

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