Il 25 novembre ricorre la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1999.

Nel giorno della ricorrenza, si celebrano le attività a sostegno delle donne, che sono troppo spesso vittime di violenze, molestie, fenomeni di stalking e aggressioni tra le mura domestiche. 

Il 25 novembre non è una data scelta a caso, ma vuol ricordare il giorno in cui nel 1960 vennero trucidate dai militari del dittatore Truijillo tre delle quattro sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana, mentre si recavano in carcere a far visita ai loro mariti.                                        

In questa occasione, vogliamo dedicare un pensiero commosso alle tantissime donne vittime di ogni forma di violenza, da quella sanguinaria ed omicida di tanti partner o ex tali che esprimono – in modo delirante e patologico – il loro amore, alle tantissime vittime di maltrattamenti, percosse o vessazioni e torture di carattere psicologico: perché è violenza non soltanto quella che lascia i segni sul corpo ma anche quella che li lascia nel cuore e nell’anima.

Crediamo che nell’opera di prevenzione di questa piaga sociale si debba tenere conto dell’importanza fondamentale che assume il lavoro femminile, ancora fortemente minoritario rispetto a  quello degli uomini, in termini di percentuali di personale impiegato, ma anche di retribuzioni e di rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori[1].

Troppo spesso, proprio a causa di una condizione di disoccupazione o di occupazione precaria, tante donne vittime di violenza in famiglia non trovano il coraggio di denunciare la loro situazione e di affrontare un percorso di separazione che le vedrebbe non in grado di sostenersi e di sostenere i figli, proprio per la mancanza di un impiego e di un reddito sicuro.

Crediamo che sia giunto il momento di colmare questo gap, anacronistico e profondamente penalizzante per milioni di donne e di madri.

Per questo rivolgiamo un appello forte e chiaro alla politica, affinché il lavoro femminile sia finalmente considerato alla stregua di quello maschile, senza più sperequazioni e discriminazioni; questo deve essere il primo tassello di quel mutamento culturale nel campo del rispetto delle donne, mutamento di cui il nostro Paese ha un bisogno estremo, oggi più che mai.


[1] L’Italia è uno dei paesi europei con i livelli più bassi di occupazione femminile. Rispetto a una media Ue di 66,5 occupate ogni 100 donne tra 20 e 64 anni, il nostro paese si trova al penultimo posto con il 52,5%, appena sopra la Grecia (48%) (mentre, secondo i dati Istat del 2018 il tasso di occupazione è del 67,6% per gli uomini e del 49,5% per le donne tra i 15 e i 64 anni). L’Italia è anche il secondo paese con il più ampio divario occupazionale uomo-donna: 19,8 punti differenza rispetto a una media Ue di 11,5. Per fare un esempio, nei paesi scandinavi e del nord Europa le differenze sono molto più contenute: 1 punto in Lituania, 3,5 in Finlandia, 4 in Svezia. Il gap occupazionale aumenta se si confrontano i soli uomini e donne con figli. Rispetto a una media europea di 18,8 punti percentuali di distanza tra padri e madri occupate, l’Italia si trova al di sopra di quasi 10 punti (28,1). Un dato in linea con quello della Grecia e molto distante dagli 8,3 punti di differenza della Svezia.”(Ricerca Open Polis, 30 aprile 2019).

Crediamo che sia giunto il momento di colmare questo gap, anacronistico e profondamente penalizzante per milioni di donne e di madri.

Per questo rivolgiamo un appello forte e chiaro alla politica, affinché il lavoro femminile sia finalmente considerato alla stregua di quello maschile, senza più sperequazioni e discriminazioni; questo deve essere il primo tassello di quel mutamento culturale nel campo del rispetto delle donne, mutamento di cui il nostro Paese ha un bisogno estremo, oggi più che mai.

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