Signori Ministri, come noto, con il DPCM 30 maggio 2008 venne a completarsi il lungo e complesso passaggio delle competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria, dei rapporti di lavoro e delle risorse economiche e strumentali relative, dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale (Regioni e Asl).

Il lungo percorso era iniziato con il D.Lgs. n. 230/1999, dell’allora ministro della salute Rosi Bindi, che aveva sancito il passaggio della sanità penitenziaria all’interno del Servizio sanitario nazionale.

A onor del vero, occorre aggiungere che di fatto il passaggio non fu rapido, ma richiese ancora tempi molto lunghi, in virtù della diversa velocità con cui le Regioni si misero in moto, peraltro all’interno di cornici  assai diverse tra loro, dando vita nel tempo a sistemi molto difformi in termini di assistenza ai malati detenuti, facendo venir meno uno dei principi cardine che aveva ispirato il cambiamento, e cioè quello di garantire ai detenuti un trattamento sanitario uguale a quello dei cittadini liberi, in ossequio al principio generale dell’inalienabilità del diritto costituzionale alla salute, come sancito dall’articolo 32 della Costituzione.

Si trattò, soprattutto, di una operazione dalle forti tinte ideologiche, che non tenne conto del fatto che il diritto alla salute dei detenuti era già ampiamente riconosciuto e tutelato dall’Ordinamento penitenziario (riformato nel 1975, in particolare all’art. 11): non solo, ma quella molto spesso denigrata “medicina penitenziaria” si fondava su esperienze pluridecennali di medici e personale sanitario che ne conoscevano profondamente le complesse dinamiche ed erano in grado di affrontarle e gestirle, nell’interesse della salute del paziente e del funzionamento della istituzione.

Il corto circuito, mentale ed ideologico, dei fautori di una riforma che ha pesantemente peggiorato sia il livello di assistenza sanitaria ai ristretti, sia le condizioni di lavoro degli operatori, sta nell’aver scientemente confuso il diritto dei malati detenuti ad essere trattati come i malati liberi (diritto sacrosanto) con il reclamare per gli uni e gli altri gli stessi percorsi assistenziali, dimenticando la peculiarità del sistema carcere, che costituisce di per sé una componente potenzialmente patogena, con il suo portato di effettiva amplificazione di molti sintomi legati alla c.d. “prisonizzazione” e, viceversa, presenta a volte il parallelo mondo della simulazione, legato ai complessi meccanismi di scarcerazioni e percorsi alternativi, previsti dalla normativa, in presenza di determinate patologie, psichiatriche e non solo. A livello organizzativo, il passaggio della sanità penitenziaria alle Regioni ha determinato all’interno del carcere, ritardi e lungaggini, con riflessi negativi sulla gestione della salute dei ristretti ma anche sull’ordine e la disciplina, mente all’esterno si sono andate a stressare ulteriormente le strutture sanitarie pubbliche, già fortemente sotto pressione; senza dimenticare lo sforzo organizzativo delle scorte e dei servizi di piantonamento curati dalla polizia penitenziaria,

necessari per far effettuare le visite ai ristretti, con tutti i rischi del caso, come numerosi episodi di clamorose evasioni stanno a  dimostrare.

Crediamo fermamente, e questo chiediamo ai Ministri interessati, che la sanità penitenziaria debba riappropriarsi della propria specificità, unica e insostituibile, attraverso il suo ritorno alle dipendenze del Ministero della Giustizia: mai come in questa fase, caratterizzata da una pandemia, stanno emergendo i limiti di questa sciagurata riforma, con gli operatori penitenziari ad altissimo rischio di contagio, spesso sprovvisti dei dispositivi di prima necessità (mascherine adeguate, guanti, saturimetri,…).

Crediamo che la tutela autentica ed efficace del diritto alla salute dei ristretti, mai come in questa fase drammatica, debba passare per il ritorno all’implementazione di un circuito dedicato – quello appunto della medicina penitenziaria – proprio in considerazione della peculiarità della condizione di un malato che è anche, suo malgrado, un detenuto, con tutti i limiti di questa condizione, quale, ad esempio, non poter scegliere dove e da chi farsi curare.

Il voler mettere tutti sullo stesso piano, malati liberi e malati detenuti, rappresenta soltanto una sterile operazione ideologica di facciata, che si ritorce fatalmente contro i più deboli, come purtroppo sta avvenendo ormai da oltre un decennio.

Chiediamo pertanto ai Ministri competenti, ognuno per la sua parte, di adoperarsi nel senso indicato dalla scrivente O. S., nell’interesse degli operatori penitenziari e sanitari, e dei ristretti cui è dovuta la tutela dei diritti fondamentali, ivi compreso quello di cui all’articolo 32 della nostra Costituzione.

Ringraziamo dell’attenzione, e porgiamo i nostri più distinti saluti.  

Il Coordinatore Nazionale  Paola Saraceni

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