Il governo dice no all’election day per le elezioni amministrative e il referendum sull’autonomia a cui Roberto Maroni tiene molto e, nello stesso tempo, impugna il bilancio lombardo sulla riduzione del tetto massimo applicato al superticket. Non è certa, invece, l’impugnazione della nuova legge approvata dal consiglio regionale del Veneto; la questione è squisitamente tecnica e saranno gli uffici legislativi del governo a dire se ci sono o meno margini di incostituzionalità. Ma la questione che è stata aperta con le indizioni dei referendum per l’autonomia regionale da Lombardia e Veneto va oltre i quesiti proposti dai Consigli Regionali delle due regioni ed è a suo modo insidiosa per il governo. Anche perché la linea del governo sui referendum autonomisti di Veneto e Lombardia resta sempre quella e cioè le Regioni si facciano le loro consultazioni, e se le paghino, poi si inizierà a ragionare secondo il dettato della Costituzione.
Maroni ha fatto sapere di aver incontrato il ministro dell’Interno Marco Minniti senza avere una risposta sulla possibilità di abbinare il referendum per l’autonomia con le elezioni amministrative di maggio-giugno in un unico «electronic day». Il governatore ha riferito di aver capito «che non c’è questa disponibilità da parte del Governo» ribadendo di avere intenzione di concordare una data con il governatore del Veneto Luca Zaia per tenere comunque i referendum per l’autonomia nelle due Regioni entro anno.
Il sottosegretario agli Affari regionali Gianclaudio Bressa intanto chiosa: “le condizioni per negoziare nuovi margini di autonomia, dopo la consultazione, saranno esattamente le stesse di oggi”.
Quindi, dando per scontato che i veneti e i lombardi vadano a votare in massa e che stravinca il Sì, il cosa succederà il giorno dopo è una road map che è già tracciata: Zaia da una parte e Maroni dall’altra si presenteranno alle rispettive aule dei consigli il programma di negoziati che intendono condurre con lo Stato, unitamente al disegno di legge statale contenente «i percorsi e i contenuti per il riconoscimento di ulteriori e specifiche forme di autonomia per la Regione». E qui entra in gioco quanto stabilito dalla costituzione: trattandosi di un disegno di legge statale, dovrà necessariamente passare il vaglio del parlamento ed essere approvato a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, sulla base di un’intesa fra lo Stato e la Regione (è quindi molto alto il rischio che tutto finisca per giacere in un cassetto, come già accadde nel 2007). Quanto ai contenuti dei relativi disegni di legge statale, sono già anticipati dalla delibera veneta 315 del marzo 2016, spedita anche all’allora premier Matteo Renzi e al ministro degli Affari regionali Enrico Costa; documento che costituisce il canovaccio principale del testo a cui stanno lavorando i tecnici del gruppo costituito nel novembre scorso.
Tra le competenze oggi riservate in via esclusiva allo Stato si leggono l’istruzione (norme generali) e l’ambiente; tra quelle concorrenti sono invece elencate: la tutela della salute, l’istruzione, la ricerca scientifica, il governo del territorio, la valorizzazione dei beni culturali, la promozione e l’organizzazione delle attività culturali, i rapporti internazionali e con l’Unione Europea, la protezione civile e il coordinamento della finanza pubblica. A queste competenze legislative dovrebbero far seguito le relative funzioni amministrative, le risorse umane e strumentali e soprattutto quelle finanziarie, sintetizzate così: «Spettano alla Regione, oltre alle singole devoluzioni di gettiti per specifiche funzioni e agli attuali tributi propri, le seguenti quote di compartecipazione ai tributi erariali riscossi nel territorio della Regione stessa: 1) nove decimi del gettito dell’Irpef; 2) nove decimi del gettito dell’Ires; 3) nove decimi del gettito dell’imposta sul valore aggiunto».
È il celeberrimo «modello Trento e Bolzano» di cui parla Zaia. Quante possibilità hanno il Veneto e la Lombardia di raggiungere un’intesa col governo e far poi approvare dal parlamento una proposta di tale portata? Secondo il Pd, nessuna. Secondo i leghisti, «moltissime perché dopo il plebiscito non potranno più mettersi di traverso». Altri, più cauti, ricordano che si deve sempre puntare alla luna, per sperare di raggiungere le vette.
Ma il problema esiste ed è insidioso non solo per il governo. La questione verte sull’organizzazione dello stato italiano. Il referendum del 4 dicembre scorso, infatti, ha bocciato le modifiche proposte da Renzi ma ha riaperto la discussione sull’attualità della forma di organizzazione dello stato italiano così come è uscito dalla precedente riforma, quella voluta nel 2001 dal centrosinistra, che ha involontariamente creato un sistema ambiguo in cui non è chiaro a chi, tra stato centrale e regioni, spetti la competenza nel fare le leggi su una lunga serie di materie.
E molti pensano ora che sia il momento di rendere ordinaria quella specialità di cui oggi godono 5 delle 20 regioni italiane guardando con particolare attenzione al modello del Trentino Alto Adige e alle sue province autonome di Trento e Bolzano.
E che queste ultime si muovano praticamente in contemporanea ai referendum in due regioni come la Lombardia ed il Veneto (si rammenti a tale proposito che il Veneto confina sia con il Trentino Alto Adige che con il Friuli Venezia Giulia e che alcuni dei suoi comuni hanno già votato la scissione dal contesto regionale per passare con le regioni a statuto speciale) pone, se non sul piano giuridico almeno sul piano politico, la questione all’ordine del giorno. E infatti sono inevitabilmente tornati in campo vecchi discorsi mai accantonati e sono stati rispolverati vecchi (ma sempre attuali) progetti con le loro contrapposizioni di sempre: “regionalismo” da una parte “cento città dall’altra” con in mezzo il modello TAA che appunto accontenterebbe entrambe le fazioni.
Ma allora l’insidia dov’è? L’insidia, ovviamente, è principalmente nei tempi; che coincidono inesorabilmente con i tempi della crisi di quello che oggi è il maggior partito del paese e con la inevitabile immediata campagna elettorale per le fantomatiche elezioni politiche nazionali. Per il governo e la sua maggioranza come per le opposizioni ma anche per i proponenti i referendum, i cui obiettivi possono infrangersi sugli scogli dell’incertezza politica. Le elezioni, infatti, prima o poi verranno e per molti rischiano di essere uno tzunami.
Chi ha puntato sul NO al referendum non per vera convinzione ma per la più semplice opportunità di sconfiggere Matteo Renzi, infatti, non ha considerato una variabile. La bocciatura della riforma costituzionale e la riduzione a proporzionale della legge elettorale hanno rimesso in campo, come per magia, tutte quelle pulsioni, autonomiste da una parte e federaliste dall’altra, che l’attuale ordinamento chiama come una calamita.
Ma come, nel pieno del periodo delle campagne sovraniste c’è ancora qualcuno che si ostina a parlare di federalismo e, per giunta, questo potrebbe condizionare le prossime elezioni e quindi ci sono buone ragioni per pensare che l’argomento possa essere attuale? Si, sembra proprio che sia così.