Il licenziamento, talvolta, potrebbe essere dietro l’angolo, se non si presta la dovuta attenzione a ciò che si dice, o meglio si scrive, su internet e sui principali social network, per loro natura vere e proprie piazze ‘virtuali’ in cui le persone esprimono commenti, opinioni o critiche e condividono punti di vista su vari argomenti, di stretta attualità e non.

Ne sa qualcosa un lavoratore nei confronti del quale la Cassazione ha confermato la legittimità della scelta del licenziamento da parte dell’azienda presso cui era stato assunto, e ciò per il motivo di aver pubblicato un post ritenuto lesivo dell’immagine del luogo di lavoro.

La vicenda è interessante perché rappresenta tutt’altro che un caso raro, attenendo ai commenti poco ‘felici’, espressi da un dipendente con un post su Facebook che, secondo la controparte in processo, aveva di fatto superato i limiti del diritto di critica, sfociando in veri e propri contenuti offensivi e denigratori.

Vediamo allora più da vicino l’ordinanza della Cassazione n. 12142, depositata il 6 maggio scorso.

L’ordinanza della Cassazione costituisce l’esito di un articolato iter giudiziario, a cui avevano preso parte il dipendente licenziato e l’azienda che aveva optato per la sanzione disciplinare del recesso unilaterale per giusta causa. Quest’ultimo come è noto, è immediato, senza preavviso e non prevede il versamento di un’indennità.

La ragione del licenziamento, secondo il datore di lavoro, era da rintracciarsi – come accennato – nella pubblicazione sul social network Facebook, di affermazioni diffamatorie verso i vertici aziendali, ai quali sono stati attribuiti comportamenti disonorevoli ed infamanti, e verso cui sono stati utilizzati termini ed espressioni con connotazione spregiativa ed offensiva. Essi sarebbero stati tali da incrinare irreparabilmente il rapporto fiduciario, che sostiene ogni contratto di lavoro.

Da notare che le doglianze dell’azienda, in merito all’asserita lesione dell’immagine e della reputazione, erano state ritenute fondate sia in primo grado che in appello, attraverso pronunce che tenendo conto degli elementi e delle prove fornite, hanno considerato la sanzione disciplinare del licenziamento proporzionata alla gravità del comportamento del dipendente.. troppo disinvolto nell’esprimersi con un post sul social network Facebook.

Nonostante le prime due sentenze negative, il lavoratore ha proseguito la sua disputa giudiziaria facendo ricorso Cassazione.

A nulla sono servite le difese del dipendente allontanato dall’azienda. Esse avevano preso di mira la prova dell’effettiva pubblicazione del post lesivo, raggiunta dall’utilizzo nel processo dello screenshot della pagina FB del lavoratore, in cui appariva il post denigratorio.

I legali del licenziato sostennero infatti che la riproduzione in forma cartacea dello screenshot, sarebbe priva di garanzia di corrispondenza con il post originale, ma la tesi non fu accolta. Ricordiamo brevemente che uno screenshot altro non è che una fotografia istantanea dell’intero schermo o di una parte di esso. Oggi con le moderne tecnologie è molto semplice ottenerne uno, sia da smartphone che da pc.

A difesa del proprio assistito, in Cassazione gli avvocati sostennero altresì che il post, reso visibile soltanto alla cerchia di contatti del lavoratore, sarebbe stato poi eliminato nel breve tempo. Al contempo i legali affermarono che l’ex-dipendente non poteva essere ritenuto responsabile dell’invio dello screenshot ad altri utenti (diversi da quelli della propria cerchia di contatti) attraverso messaggio privato. Egli peraltro rimosse il post quasi immediatamente.

Come accennato, il giudice di legittimità ha dato ragione all’azienda, in quanto ha ritenuto che la decisione dei magistrati dei gradi inferiori è stata giustificata, in particolare, dalle testimonianze di due persone che anteriormente alla fase del ricorso in Cassazione, avevano dichiarato in tribunale di aver letto il post in oggetto, indicandone altresì il contenuto e dunque le parole.

Il rilievo dello screenshot era dunque meramente accessorio rispetto alla prova rappresentata dalla testimonianza.

Inoltre, nel giustificare il contenuto della propria ordinanza, la Cassazione ha altresì richiamato un precedente giurisprudenziale di rilievo, secondo cui eliminare il post non basta ad evitare le potenziali conseguenze lesive del comportamento.

In particolare, nel testo dell’ordinanza del 6 maggio, si può leggere che in materia di licenziamento disciplinare è giusta causa di recesso, poiché idonea a lesionare il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su Facebook di un commento offensivo verso la società datrice di lavoro, integrando questa condotta gli estremi della diffamazione, per la capacità del mezzo usato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone (cfr. Cass. 27/4/2018, n. 10280).

Non basta insomma che il messaggio fosse destinato alla sola cerchi di amici o contatti stretti, le potenzialità del web per ciò che attiene alla circolazione di notizie – e commenti pubblicati – sono indubbie ed infatti nella recente ordinanza si può leggere quanto segue:

il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione, venendosi a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica.

In sostanza, costante giurisprudenza afferma che, dal momento in cui un messaggio o un qualsiasi contenuto viene pubblicato su internet, esso può sfuggire al controllo del suo autore ed egli non potrà ritenersi discolpato con la mera – e pur immediata – eliminazione del messaggio.

Anzi questi dovrà sostenere le conseguenze della circolazione del contenuto stesso, avente l’attitudine ad essere diffuso e reso noto ad una pluralità indeterminata di utenti.

Non a caso la pubblicazione di post denigratori su internet, costituisce gli estremi dell’illecito penale della diffamazione.

Ecco perché la Cassazione ha affermato che il licenziamento per giusta causa, nei confronti del lavoratore che aveva fatto ricorso, è legittimo.

L’ordinanza della Cassazione

Uffico stampa FSI-USAE

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