Per la prima volta in Italia viene applicato il principio della riforma: l’inosservanza dell’ obbligo di “ripescaggio” del lavoratore rende illegittimo da parte dell’azienda il licenziamento, ma la conseguenza è il solo risarcimento con una indennità ma non il reintegro nel posto di lavoro.
Apripista della riforma e a farne le spese un lavoratore che si era rivolto al Tribunale di Milano per sostenere la nullità del licenziamento per motivo illecito individuato nella ritorsione del datore di lavoro nei suoi confronti per il rifiuto a sottoscrivere “in bianco” una lettera di dimissioni.
Durante il dibattimento l’azienda edile aveva chiamato a sostegno del licenziamento la cessazione di un appalto al quale era addetto il lavoratore e quindi la conseguenza della perdita di lavoro da parte del muratore. La ditta però non è riuscita a dimostrare l’impossibilità di ricollocazione all’interno dell’azienda del lavoratore in questione. Da qui il giudice ha ritenuto illegittimo il licenziamento. Secondo il “vecchio” art.18 dello Statuto dei Lavoratori il dipendente sarebbe stato obbligatoriamente reintegrato in azienda.
Ma secondo la riforma ciò non basta, laddove il fatto portato a principio del recesso da parte della ditta si riveli in realtà esistente (perdita dell’appalto in questo caso), sarà sufficiente ad escludere la nullità del licenziamento per causa di ritorsione, in quanto non unica per aver stabilito il licenziamento. Il Tribunale in questione ha infatti enunciato che il licenziamento per ritorsione, quale cioè reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore, è nullo solo se tale illecito sia stato l’unico a determinarlo. E grava sul lavoratore l’onere di dimostrare l’esistenza della prova di motivo di ritorsione quale unico elemento di licenziamento.
Il muratore quindi non è stato integrato ma solo indennizzato con venti mensilità, determinate dal giudice tra il minimo di 12 ed il massimo di 24 disposte dalla legge.
a cura di Dario Nordio
Dipartimento FSI
Responsabile Stefano Castagnola