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La Cassazione ridimensiona il fenomeno dello straining

Se i rapporti non sono esorbitanti, inutile che il dipendente chieda alcunché. Nemmeno se si ammala.
Lo stress è diventato da tempo uno dei motivi di qualsiasi malessere non ben identificabile: quando nessuno sa dare una spiegazione logica ad un problema psicofisico, la frase è quasi sempre la solita: «Colpa dello stress».

Recentemente, però, la Cassazione (forse «stressata» anch’essa da questa tendenza) ha trovato il modo di dire basta alle pretese di risarcimento per la troppa pressione al lavoro. Con un’ordinanza che, probabilmente, non piacerà a molti, ha messo dei paletti al cosiddetto «straining», cioè a quella situazione di stress forzato in ufficio o in fabbrica che, in determinate circostanze, può essere denunciato. Dopo questo pronunciamento della Suprema Corte, dunque, se lo stress da lavoro causa malattia c’è sempre il risarcimento? Ovvio, a questo punto, che la risposta è «no». Ma vediamo perché.

Per «straining» si intende quella situazione di stress forzato sul posto di lavoro che non richiede un atteggiamento ostile costante: basta anche da una sola azione di quel tipo compiuta dall’aggressore, di solito è un superiore.

Una sola azione, dunque, ma in grado di produrre degli effetti negativi nel tempo affinché possa rientrare nello straining. Non un violento rimprovero verbale chiarito dopo qualche ora, non uno sgarro che si dimentica a fine giornata: il comportamento ostile deve avere sulla vittima delle conseguenze durature e deve comportare per il lavoratore una condizione di persistente inferiorità rispetto allo strainer.
È proprio questa la differenza con il mobbing. Alla base di quest’ultimo, infatti, ci devono essere più atteggiamenti ostili continuativi per un certo periodo di tempo e in grado di provocare un danno alla salute. Per lo straining, invece, basta un solo episodio, ad esempio un demansionamento immotivato, la privazione di strumenti di lavoro messi a disposizione di tutti gli altri dipendenti (telefono, computer), ecc.
A quale scopo tutto ciò? Per creare nel lavoratore una condizione peggiorativa per vendetta o nella speranza che prima o poi si dimetta ed eviti così di essere licenziato senza motivo.

Quando c’è diritto di risarcimento per straining?
Lo stress forzato al lavoro, cioè lo straining, può essere denunciato quando il dipendente si trova:

  • allontanato dal posto di lavoro o dalla mansione normalmente svolta a scopo discriminatorio;
  • costretto a lavorare in un contesto ostile;
  • deriso nell’ambiente in cui lavora;
  • estromesso da un settore strategico in cui dimostra particolari qualità;
  • ignorato nelle sue capacità, pur avendo ricevuto degli incarichi di responsabilità;
  • professionalmente demansionato;
  • trasferito di proposito e senza motivo in un luogo che gli crea disagio personale o professionale;
  • scavalcato senza motivo da altri colleghi, magari più inesperti di lui;
  • isolato dalla formazione aziendale in cui prima veniva coinvolto;
  • escluso dal lavoro in team;
  • privato da ogni contatto personale e dagli strumenti necessari a svolgere il suo lavoro o a mantenere delle relazioni professionali con i colleghi o con i suoi responsabili.

Il dipendente che ritiene di essere vittima di straining sul lavoro può, innanzitutto, avviare un’azione civile per chiedere il risarcimento del danno biologico, esistenziale e patrimoniale. Purché, però, riesca a provare che il suo aggressore abbia messo in atto un comportamento contrario a quanto disposto dal Codice civile in materia di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale dei lavoratori [1]. In particolare, dovrà dimostrare:

  • che la condotta dell’aggressore ha violato la norma del Codice civile sulla tutela dell’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, oppure che non ha rispettato il testo unico sulla sicurezza sul posto di lavoro;
  • di avere subìto un danno legato al comportamento dell’aggressore, danno che deve essere documentato da perizia medico-legale eseguita da un esperto in medicina del lavoro in grado di quantificare il danno riportato dal dipendente;
  • il nesso causa-effetto.
    Il datore di lavoro denunciato per stress forzato potrà respingere ogni responsabilità se riuscirà a dimostrare di avere messo in atto ogni misura per impedire l’evento che ha provocato il danno.

Sarà possibile avviare una causa penale solo se lo straining è stato causato da un comportamento che ha i connotati di un reato, ad esempio c’è violenza o abuso sessuale, lesioni personali, minacce, disturbo alle persone o violenza privata.

Quando non c’è il risarcimento da stress al lavoro?
Tutto ha un limite, secondo la Cassazione. E se quel limite non viene superato, se non ci sono i connotati per parlare di reato o di abusi al lavoro, non sempre c’è il risarcimento per chi accusa una situazione di stress in ufficio.
Con una recente ordinanza, la Suprema Corte ha ridimensionato la portata dello straining stabilendo che non c’è diritto al risarcimento per l’eccessivo stress nemmeno se chi lo soffre finisce per ammalarsi. Ovviamente, a condizione che i rapporti contrastanti con il datore o con il diretto superiore non abbiano oltrepassato i limiti della correttezza e non siano da considerare completamente fuori luogo.
Gli Ermellini sostengono, inoltre, che il datore non può essere ritenuto responsabile dell’insorgere di una malattia nel lavoratore, sempre – insiste la Cassazione – se non c’è esorbitanza nei modi rispetto ai normali rapporti tra due persone.
In buona sostanza, se un lavoratore si sente stressato ma non dimostra che i contrasti con il suo superiore siano al di sopra delle righe o che ci sia stato qualche atteggiamento vessatorio nei suoi confronti, non sarà certo il risarcimento a farlo guarire. Semplicemente perché quel risarcimento non arriverà.

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