Il dipendente deve essere garantito da qualsiasi forma di stress sul luogo di lavoro. Con la recente sentenza 2084/2024 del 19 gennaio, la Cassazione ha sottolineato che il datore di lavoro non può limitarsi a contrastare e prevenire il mobbing, ma deve intervenire anche in presenza di un ambiente lavorativo eccessivamente stressante, al fine di preservare la salute dei dipendenti. Questo obbligo persiste anche quando la causa della sofferenza non può essere classificata come mobbing. Immaginiamo che, da ora in avanti, questa sentenza influirà – e non poco – su tutte quelle situazioni di BURN-OUT che aleggiano anche negli ospedali italiani.

Inizialmente, l’appello aveva favorevolmente giudicato il datore di lavoro. Tutto ha avuto inizio con la richiesta di risarcimento per sofferenze psichiche presentata da A.A., un dipendente dell’Erap delle Marche. Sebbene la richiesta fosse stata accolta in prima istanza, la Corte D’Appello di Ancona, nel 2018, ha accolto l’impugnazione dell’amministrazione. In riforma della decisione di primo grado, la Corte ha respinto la richiesta di risarcimento, sostenendo che mancavano elementi di persecuzione deliberata, un requisito essenziale per configurare il mobbing, e che al massimo si poteva parlare di carenze gestionali e organizzative negli atti dell’Ente.

La sentenza della Cassazione

Poi, il ribaltamento della decisione da parte della Cassazione.

Con quale motivazione? Partendo dall’articolo 2087 del Codice civile, che stabilisce che la violazione da parte del datore di lavoro del dovere di sicurezza ribalta questa decisione, partendo dalla considerazione che la violazione ha natura contrattuale e, dunque, il dipendente ha il diritto di avvalersi della responsabilità contrattuale contro il proprio datore di lavoro.

La tutela dell’integrità psico-fisica prima di tutto

Insomma, la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore deve venire sempre prima di tutto, insiste la Corte: prima della fattibilità economica e produttiva, che non giustificano mai cedimenti delle misure di tutela e prevenzione. Dunque, sempre secondo la Cassazione, un datore di lavoro è responsabile anche senza la presenza di un «unificante comportamento vessatorio», come è nel caso del mobbing, bastano comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore e «condizioni lavorative “stressogene”».

Ufficio Stampa FSI