Il complesso tema del mobbing e dello stress sul luogo di lavoro, con particolare riferimento alla Pubblica Amministrazione, è stato recentemente affrontato da una sentenza della Corte di Cassazione.

Questi fenomeni, il mobbing e lo stress correlato al lavoro, rappresentano questioni intricate e delicate che influiscono negativamente sia sul piano psicologico che fisico dei lavoratori coinvolti.

Il mobbing, noto anche come molestie morali sul lavoro, si manifesta attraverso comportamenti ripetitivi e vessatori mirati a isolare e danneggiare psicologicamente il lavoratore. Al contrario, lo straining, o stress correlato al lavoro, si verifica quando l’ambiente lavorativo diventa una fonte di stress, compromettendo la salute mentale e fisica dei dipendenti.

Entrambi i fenomeni possono avere impatti significativi sulla qualità della vita professionale, sottolineando l’importanza di un’attenta valutazione giuridica per garantire la tutela dei diritti dei lavoratori e la responsabilità dei datori di lavoro, sia pubblici che privati.

La pronuncia della Corte di Cassazione è derivata da un caso concreto riguardante una lavoratrice, assistente amministrativa presso il MIUR, che aveva avanzato una richiesta di risarcimento danni a causa di presunti comportamenti vessatori da parte del personale dell’istituto.

Inizialmente, il Tribunale di Monza aveva riconosciuto la sussistenza del mobbing, assegnando alla ricorrente un risarcimento di €16.000. Tuttavia, la Corte d’Appello di Milano ha successivamente respinto la domanda, negando la presenza di elementi vessatori.

La lavoratrice ha presentato un ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Il primo motivo sottolinea una presunta violazione ed errata applicazione degli articoli 2087 e 2043 del codice civile, contestando la valutazione della Corte d’Appello sulla nozione di mobbing.

Il secondo motivo solleva la nullità della sentenza o del procedimento, criticando il rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello e accusando la Corte territoriale di avere motivato in modo generico il rifiuto della domanda di risarcimento.

Infine, il terzo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo una valutazione “atomistica” degli eventi da parte della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione ha ribadito che, nell’accertamento del mobbing, l’elemento qualificante risiede nell’intento persecutorio che unifica gli atti, e che questo intento deve essere provato dalla persona che si dichiara vittima. Il giudice del merito deve, quindi, considerare tutte le circostanze del caso.

La Corte ha anche affermato che anche in assenza di mobbing, è illegittimo che il datore di lavoro tolleri un ambiente stressogeno dannoso per la salute dei dipendenti. Ciò configura una responsabilità colposa del datore di lavoro, in conformità all’art. 2087 del codice civile.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, sottolineando la necessità di una valutazione complessiva, non atomistica, dei fatti nel caso di mobbing o, in sua assenza, della responsabilità del datore di lavoro per non aver adottato misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore.

La sentenza della cassazione

Ufficio Stampa FSI-USAE