E’ suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio l’inosservanza alle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge, allorché il potere disciplinare sia esercitato non in funzione dell’interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e sorretti da un intento ritorsivo. Inoltre, il contributo concorsuale a tale fattispecie acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6665 del 18 febbraio 2016.

Il caso trae origine da una sentenza con cui il Gip di Viterbo dichiarava non luogo a procedere nei confronti del direttore generale e del direttore dell’area tecnica di un’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale Pubblica in relazione ai reati loro contestati di abuso d’ufficio, per avere elevato rilievi e sanzioni disciplinari, nonché disposto il licenziamento disciplinare, nei confronti di un’ingegnera funzionaria della predetta Agenzia territoriale, sulla base di presupposti inesistenti e dunque cagionando alla medesima un danno ingiusto.

A sostegno della decisione, il giudice rilevava che i rapporti di lavoro con l’Agenzia Territoriale in oggetto erano regolati dalle norme del codice civile, di tal che l’inosservanza o la contestata mancata o erronea applicazione delle disposizioni che disciplinano i rapporti tra i dipendenti e l’ATER, quale amministrazione pubblica, non costituivano violazioni di legge o regolamento idonee ad integrare la fattispecie di abuso d’ufficio; che il licenziamento senza preavviso disposto quale sanzione disciplinare era ascrivibile al solo direttore generale, il solo che aveva messo la sua firma sul foglio di “espulsione”, non potendo essere attribuita una responsabilità oggettiva al direttore dell’area tecnica per essere ella titolare del solo potere di iniziativa per l’applicazione delle sanzioni.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica, evidenziando come nella specie non venissero in rilievo violazioni di legge concernenti aspetti privatizzati del rapporto di lavoro, ma l’esercizio del potere attribuito all’ufficio di appartenenza del pubblico ufficiale o dell’esercente il pubblico servizio che si contestava essere stato esercitato, non per uno scopo pubblico, bensì per un interesse personale e egoistico degli imputati, i quali erano stati del resto rinviati a giudizio in relazione alle restanti imputazioni “direttamente conseguenti alla insussistenza degli addebiti disciplinari pretestuosamente mossi alla dipendente”, segnatamente per falso per soppressione e diverse ipotesi di calunnia, nonché per le ulteriori ipotesi di abuso d’ufficio in danno della medesima dipendente, in tutto analoghe a quelle per le quali il giudice aveva disposto il non luogo a procedere.

LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal Procuratore della Repubblica. Sul punto, osservano gli Ermellini che – contrariamente a quanto deciso dal giudice laziale – nel caso di specie la condotta di abuso d’ufficio non riguardava la contestata violazione di norme a disciplina del rapporto di lavoro in seno all’ente pubblico, rapporto avente indubitabilmente natura privatistica, bensì l’esercizio da parte del pubblico ufficiale o dell’esercente il pubblico servizio del potere attribuito all’ufficio di appartenenza in una materia, quale quella disciplinare, che è e resta disciplinata dalla legge.

Ed invero, il potere disciplinare nel pubblico impiego, pur rientrando nell’area della gestione del rapporto di lavoro sottoposto a contratto collettivo di matrice privatistica e si esprima mediante atti negoziali, e non con provvedimenti amministrativi, deve essere esercitato nei limiti disegnati dalla legge ed eventualmente integrati dalla contrattazione collettiva.

La disciplina legale in materia è delineata da plurime fonti normative, segnatamente dall’art. 2106 cod. civ., dall’art. 7 della legge n. 300/70 (c.d. Statuto dei lavoratori) e dagli artt. da 54 a 55-octies del D.Lgs. n. 165/2001, come modificati con D.Lgs. n. 150/2009. In particolare, l’art. 40 del citato decreto stabilisce, al comma 1, che “La contrattazione collettiva determina i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali. (…) Nelle materie relative alle sanzioni disciplinari, alla valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio, della mobilità e delle progressioni economiche, la contrattazione collettiva è consentita negli esclusivi limiti previsti dalle norme di legge”. All’art. 55, commi 1 e 2, stesso decreto viene espressamente sancito: “1. Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma, del codice civile, e si applicano ai rapporti di lavoro di cui all’articolo 2, comma 2, alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2. 2. Ferma la disciplina in materia di responsabilità civile, amministrativa, penale e contabile, ai rapporti di lavoro di cui ai comma 1 si applica l’articolo 2106 del codice civile. Salvo quanto previsto dalle disposizioni del presente Capo, la tipologia delle infrazioni e delle relative sanzioni è definita dai contratti collettivi. La pubblicazione sul sito istituzionale dell’amministrazione del codice disciplinare, recante l’indicazione delle predette infrazioni e relative sanzioni, equivale a tutti gli effetti alla sua affissione all’ingresso della sede di lavoro”. L’art. 55-bis (come novellato nel 2009) disciplina le forme e termini del procedimento disciplinare. Infine, l’art. 54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, prevedendo che questi non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.

Orbene, dal quadro normativo sopra delineato discende che è certamente suscettibile di integrare il reato di abuso d’ufficio l’inosservanza alle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall’art. 2106 cod. civ. e dal D.Lgs. n. 165/2001 come modificato con D.Lgs. n. 150/2009), allorché il potere disciplinare sia esercitato non in funzione dell’interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e sorretti da unintento ritorsivo.

Tra l’altro – precisa la Suprema Corte -, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale.

Quanto all’assoluzione del direttore dell’area tecnica in ordine al licenziamento disciplinare disposto nei confronti dell’ingegnera funzionaria dell’Agenzia Territoriale, ad avviso della Suprema Corte avrebbe errato il giudice là dove ne aveva escluso il concorso nella condotta di abuso sulla scorta della considerazione che l’imputata, non avendo apposto la propria firma in calce al provvedimento di licenziamento disciplinare non avrebbe potuto rispondere della condotta a mero titolo di responsabilità oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della conseguente titolarità del potere d’iniziativa per l’applicazione delle sanzioni disciplinari.

Ed invero, secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato (Cass., sent. n. 36125 del 13/05/2014), il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di uncontributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (fattispecie in tema di abuso di ufficio).

Ne discende che, almeno in linea ipotetica, non poteva essere escluso che l’imputata, a prescindere dalla mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in seno all’ufficio, avesse potuto comunque avere assicurato il proprio contributo, morale o materiale, anche di natura meramente agevolatrice, al prodursi dell’evento.