Signor Ministro, raramente nella storia dell’Italia repubblicana si era assistito ad una crisi così profonda: l’attuale emergenza sanitaria si sta ampliando in emergenza economica e sociale, a livello planetario.

Un tale scenario non poteva non coinvolgere le nostre carceri, dal canto loro già in grandissima sofferenza a causa dei mali atavici del sovraffollamento, delle carenze di organico del personale di polizia penitenziaria e dell’area trattamentale, della vetustà di moltissime strutture, della diffusa mancanza di opportunità lavorative in favore dei ristretti, la maggioranza dei quali trascorre le giornate nell’ozio totale, con pregiudizio dell’ordine e della disciplina degli istituti, atteso il regime aperto della sorveglianza dinamica cui sono sottoposti nei circuiti a media sicurezza.

L’emergenza coronavirus ha fatto da detonatore a questa situazione, laddove la sospensione dei colloqui con i familiari ha scatenato rivolte a catena negli istituti, con morti, danneggiamenti, distruzione di intere sezioni, evasioni di massa e abbiamo la netta sensazione che quella attuale sia solo una tregua, temiamo fortemente che tutto questo possa ricominciare, anche fomentato da elementi ed organizzazioni esterne al carcere.

In tale contesto, l’ennesima proposta di liberare migliaia di detenuti, sia pure con pena residua non superiore ai 18 mesi, con una sorta di indulto mascherato, appare l’ennesima resa dello Stato: è impensabile che, per rimediare alle disfunzioni del sistema, si neghi il principio cardine della certezza della pena, restituendo alla società civile chi non ha ancora finito di pagare il suo debito.

In questi giorni bui in cui tutti gli Italiani sono confinati in una sorta di arresti domiciliari, con la previsione di sanzioni penali per chi si concede una corsa al parco o una passeggiata in solitudine, è inaudito restituire la libertà a chi ancora non l’ha meritata (in forza di una condanna, sia chiaro), sovraccaricando, tra l’altro, le forze dell’ordine con ulteriori compiti di vigilanza relativi a questi soggetti, che andranno ovviamente strettamente controllati.

Tale scellerata decisione comporterebbe, inoltre, un enorme aggravio di lavoro per gli uffici giudiziari per la definizione di migliaia di scarcerazioni, sforzo che in questo momento storico quegli uffici giudiziari non possono assolutamente permettersi.

Non può tacersi inoltre come, in occasione dei provvedimenti di indulto decisi in passato, si riscontrò un tasso di recidiva molto elevato tra i soggetti che ne fruirono, dunque, l’esperienza insegna, che si rischierebbe una sorta di cortocircuito mettendo fuori centinaia di individui, per poi ricominciare a perseguirne una buona parte, in ragione della commissione di nuovi reati, con il rischio concreto di doverli di nuovo incarcerare, portando rischi di contagio all’interno degli istituti.

E, aggiungiamo, in considerazione dell’attuale pandemia, quali garanzie ci sarebbero nell’associare centinaia, migliaia di individui ai nostri istituti penitenziari, quali sforzi in termini di impegno, di personale e risorse da impiegare sarebbero necessari per evitare contagi di massa nelle nostre carceri?

È di tutta evidenza che un simile provvedimento, oggi più che mai, sarebbe una scelta sbagliata.

Crediamo che soluzione più idonea, più giusta e definitiva sarebbe quella di inviare tutti i condannati stranieri a scontare la pena nei loro Paesi di origine, alleggerendo i nostri istituti da migliaia di presenze, peraltro non sempre di facile gestione.

Siamo convinti che l’attuale emergenza richieda provvedimenti emergenziali, senza dubbio: ma anche tra questi bisogna saper scegliere, senza mettere in ulteriore pericolo la collettività e in discussione i principi cardine del nostro ordinamento costituzionale.

Ringraziamo per l’attenzione, e restiamo in attesa di conoscere le determinazioni che saranno assunte nel merito.

Il Coordinatore Nazionale Paola Saraceni

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